Claudio Rosati, socio e cofondatore di Simbdea – Società italiana per la museografia e i beni demoantropologici – ha risposto a qualche nostra domanda sulla relazione che lega la realtà dei Musei Etnografici al Festival Tocatì.
Qui di seguito l’intervista che abbiamo realizzato.
Gentile Claudio, la prima domanda si riferisce al suo libro “Amico museo”. Sappiamo dal Tocatì del 2016 che il museo di Casa di Zela è stato un museo amico per lei. Ci può raccontare brevemente la storia di questa amicizia?
Casa di Zela è in primo luogo una comunità umana. Raramente ho conosciuto un gruppo di semplici cittadini caratterizzati da un impegno così appassionato e rigoroso per salvaguardare e valorizzare un’area naturale protetta, un’antica casa colonica e un’importante raccolta etnografica che si trovano all’interno di una delle aree più industrializzate d’Italia, quella formata da Firenze, Pistoia e Prato. Il mio tramite con Casa di Zela è stato Ernesto Franchi che chiamo il “cacciatore di perle” per la sensibilità che ha nello scovare, da quaranta anni, oggetti di riuso e di riciclo, tutte cose intrise di umanità. A Ernesto Franchi ho fatto conoscere Ettore Guatelli e la sua casa di Ozzano Taro. Ne è nato un rapporto che è servito anche a sostenere Ernesto nella sua ricerca. Casa di Zela conferma che il valore patrimoniale della raccolta che conserva è nelle relazioni umane che può rivelare. Per questo è per me un museo amico.
Nel 2016 il museo Casa di Zela è stato ospite del Tocatì. Può ricordare la proposta del museo nell’ambito di Tocatì?
Confesso che inizialmente ho partecipato con titubanza all’idea degli amici. La proposta del museo era quella di presentare a Tocatì pratiche di gioco legate alle stagioni e come oggetto da gioco possa essere qualsiasi cosa quando si vive all’aperto e in campagna. Credevo che il gioco della campana, la pista con i tappini e soprattutto l’elicottero, costruito con un pezzo di pannocchia e tre penne di piccione, che lanciato in aria torna a terra con il moto delle pale dell’elicottero, non avrebbero costituito alcuna attrazione. E’ successo il contrario. Lo spazio del museo è stato preso d’assalto da adulti e bambini. Molti ci dicevano che volevano comprare l’elicottero che invece regalavamo fino a quando non abbiamo esaurito i materiali. Nell’onnipresenza del digitale la proposta di Casa di Zela ha avuto l’effetto di qualcosa di diverso, quasi di esotico, rispetto all’offerta corrente e ha funzionato. Non si tratta di demonizzare il digitale, ma di non impoverire, in generale, la proposta del museo seguendo un linguaggio unico.
Ci piacerebbe capire con lei quali esperienze sono nate dall’incontro tra il museo e Tocatì.
L’incontro è servito, innanzi tutto, a confermare il valore del ruolo del museo nella sua mediazione con il patrimonio di pratiche di cui è depositario. Musei, come quello di Casa di Zela, avvertono spesso di vivere in una condizione di inferiorità culturale per la disattenzione che li circonda. La partecipazione a Tocatì ha invece dimostrato che se si percorrono nuove vie, se si “esce”, soprattutto mentalmente, dalle mura del museo, si può avere una relazione significativa con le persone. Qualcuno che ci ha incontrato a Verona è venuto poi a trovarci al museo. Una maestra ha accompagnato la sua classe in visita.
Come vede, in una visione strategica, la partecipazione di Simbdea al Tocatì?
Rispetto al tema “musei e patrimonio immateriale” come vede il rapporto tra musei, comunità di pratica e patrimonio culturale?
Esistono musei che sono essi stessi comunità di eredità. Emanuela Rossi, nell’ultimo numero di “Antropologia museale”, scrive che gli Amici di Casa di Zela “fanno molto pensare ad una <comunità di eredità>, identificabile non a priori, ma solo attraverso ciò che fa”. Lo vedo, pertanto, come un rapporto dinamico in cui il museo è sempre più mezzo o strumento che un tempio, più o meno esplicito e cristallizzato del sapere. Uno strumento per guardare alla storia plurale degli oggetti che espone, alla biografia di chi li ha raccolti, alle relazioni che hanno con i visitatori. Concordo con coloro che dicono che così il museo può diventare il pretesto per una riflessione sul rapporto tra locale e globale. E’ certo che una prospettiva come questa porta necessariamente a rivedere il valore patrimoniale delle cose per mettere al centro le pratiche, la relazione che queste hanno con le persone.